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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
L'odore del vento


 


 
 


Sarà quest’odore che le impregna i capelli e le fa ricordare quando ancora bambina correva verso casa col fiato nel cuore, perché più veloce fosse distante il ricordo, più vicino il calore del grembo di casa. E mentre correva si struccava la faccia, e mentre correva si mangiava il rossetto, s’allacciava la maglia e s’allungava la gonna, lungo il canale sopra il ponte di ferro, sul filo dell’acqua gonfiato dal mare, dall’odore di melma portata da Roma, che a sera traboccava dal bordo di pietra, inzuppando la strada di pozzanghere nere.

Sarà quest’odore portato dal vento, questa brezza salmastra che sale di sera, che le sbatte sul viso come quando bambina, con gli zoccoli in mano schivava i riflessi, di vetri ed angosce sotto i suoi piedi, scongiurando il destino sempre in agguato, che qualcuno di casa potesse vederla, suo fratello ad esempio che giocava lì in strada o sua madre affacciata che scrutava il canale, per qualcosa di strano che aveva intuito, per qualcosa di certo che non poteva accettare, sua figlia in pineta dalle cinque alle otto, che passava le ore con i ragazzi più grandi, uomini fatti sotto l’ombra dei rami.

Sarà questo odore di umido e muffa, quando incerta e sospesa passeggiava sui tacchi, sotto una pioggia di aghi dei pini, e si prestava al gioco più antico del mondo, dove lei era donna e loro gli amanti, che a turno baciava per sentirsi più grande, che a turno fissava per vederli reagire, sollevando la gonna, scoprendo il mistero, con il fiato che in gola faceva condensa, oltre il trucco, il rossetto e i capelli legati, senza capire cosa stesse donando, che quello che offriva era davvero un tesoro, uno scrigno, un baule negli abissi di mare, di brividi intensi, di pelle del cuore.

Sarà che stasera sente ancora la voglia, d’essere guardata con la stessa passione, da quegli occhi che avidi non aspettavano altro, che vederla più nuda fino agli intimi orli, che vederla incosciente mentre rideva di gusto, nel guardarli sudare per una striscia di pelle, nel sentirli ansimare se non portava mutande. Che c’era di male se scopriva la maglia? Se ad un tratto le mani si facevano esperte e da donna fatale stringeva i suoi seni, piccoli ed acerbi come mele a settembre, piccoli ed aspri come limoni d’estate, avvertendo distante un sottile piacere, leggero e sfocato come le luci di Roma, misto al vapore nella penombra di sera, di mani roventi, di voci più calde, che le dicevano femmina senza capirne il senso, che le dicevano altro fino a farla arrossire, e sussurravano brava chiedendone ancora e s’ammassavano densi come storni d’uccelli, appollaiati al tramonto sopra un unico ramo.

Sarà che ancora si chiede perplessa, che ci fosse di male se poi a letto la sera, rivedeva la scena e riprovava la parte, e sui seni di nuovo s’affollavano dita, s’addensavano voglie di saliva e parole, ed incredula li lasciava toccare, e sentiva le voci diventare più roche, mentre un mistero premeva la gonna, che a scatti più duro le sgualciva la stoffa. L’appoggiavano al tronco e le baciavano il collo, la tenevano ferma e le dicevano bella, come se lo fosse stata davvero, diversa da quella che si spogliava allo specchio, ogni sera un difetto, le gambe più storte, piene di croste che si divertiva a levare. E la chiamavano Molly come sua madre, e la chiamavano Milly senza conoscerne il nome, e la toccavano dietro, davanti, la faccia, affondando le mani sopra la pelle più bianca, toccandone l’anima sorpresa e stupita, d’esser unica dentro quel mondo, d’essere grande come sua madre, con due figli da crescere ed uno nel grembo, senza che avesse mai avuto un marito, senza una casa per andare a servizio.



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Saranno gli anni che passano e passano ancora o questo odore di vento che le impregna i capelli ed asciuga il sudore d’un ricordo più vivo, come ora più grande vestita di rosso, accavalla le gambe tra i tavolini la sera, su un marciapiede sconnesso di erba e di sabbia, d’un bar all’aperto sul lungomare di Ostia. Con i capelli più lunghi tintinna i suoi cerchi ed ammicca un sorriso come un biglietto d’invito, al primo che a caso si ferma a guardare, perché non ci siano dubbi che sotto la gonna, ci sia una donna a portata di mano, un sesso socchiuso disponibile all’uso.

La sua faccia è indurita ed i capelli più crespi, le unghie laccate d’un rosso scarlatto, ma le dicono bella e fiera ci crede, le dicono quanto e pronta risponde. Saranno cinquanta, saranno di meno, sarà solo la luna a darle conforto perché non c’è poesia in quello che ottiene, non c’è ragione per sentirsi più grande, sono baci evidenti e carezze di marmo, sono voglie che chiedono di finire alla svelta, vicino alla darsena a due metri da casa. Porta soltanto un cappello di panno, a falde più larghe dove ci depone le uova, in attesa d’uccelli che fecondino sogni, che pretendano altro di quello che offre, che non pretendano amore in cambio di niente.

Dentro uno specchio impolverato di cipria, mentre passeggia sugli aghi di pino, rivede le labbra, le gambe, la gonna, tra l’odore di melma portata da Roma, come un tempo d’estate dalle cinque alle otto, coi i seni scoperti di mele e limoni, la corteccia di tronco ed il branco davanti, o quando sua madre le impediva d’uscire, si sentiva bramata indispensabile al mondo, quanto un pallone perso o bucato, che interrompeva all’istante qualsiasi gioco. Sua madre nel tempo l’ha purtroppo scoperta, e muta la sera si segna sul petto, figlia ormai persa nello stesso destino, quando torna più stanca fiera e convinta, d’essere unica e femmina rara, come se al mondo non ci fossero donne, come se piatte non avessero tette, per sfamare ogni uomo, ogni bocca più adulta, al pari di bimbi che succhiano latte.

Sarà questo vento che le impregna i capelli, saranno gli anni che passano in fretta, e le ore in attesa che vanno più lente, lungo il canale gonfiato dal mare, che al tramonto trabocca di pozzanghere nere. Sarà che ora non ha più timore e respira la notte e struscia i suoi tacchi, quando torna più stanca e senza paura, di correre a casa allungando la gonna, di struccarsi la faccia con gli zoccoli in mano.

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  FABRIZIO ROMAGNOLI

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