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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La Vie En Rose


 


 
 


“Finalmente mi esibisco a Roma.” Mi hai scritto.
“Domani sera alle nove, ci sarai?” In un quartiere chiamato Testaccio, mi hai detto.
Ti ho chiesto: “Ma dove?”
Ma poi non ti ho più sentito. Io non posso mai sentirti da quando stai con lui. I nostri contatti sono mezze frasi, mezzi infinitesimi di secondo, mezze faccine tristi.
“Devo chiudere.” Mi dici sempre.
“Scusa, non posso stare al telefono, ti richiamo.” E poi non mi richiami, mai.
Io ti cerco, ti cerco sempre, ti cerco ovunque, tra i siti in internet, tra le pagine degli spettacoli. Non ho fatto in tempo a dirti che sarei venuto, sicuramente verrò, anche se non so precisamente dove.

*****

Stasera a Roma piove, come al solito piove quando ho da fare. Lascio la macchina sul LungoTevere, ma non ho l’ombrello. Cammino strusciando i muri, questi palazzi non hanno balconi. Una zingara bambina mi ferma e mi sorride. Mi fa pena vederla così bagnata, senza nemmeno un cappuccio in testa. Le compro trentadue rose, credo siano i tuoi anni. Chissà se si usa ancora…. L’ammiratore di turno che va a trovare l’attrice nel suo camerino dopo l’esibizione e si presenta con un ingombrante mazzo di rose. Ho paura di essere ridicolo.

E’ sabato sera, nonostante la pioggia le vie del quartiere sono affollate. Giro tra i locali per trovarti: Alpheus, Caffè Emporio, Caruso, Caffè Latino, Alibi… Per le strade musica d’ogni genere. Un gruppo cileno suona musica andina dentro un portone. Ed io cerco nelle bacheche il tuo nome, cerco tra le tante la tua foto, ma niente. Ti immagino bionda, chissà perché. Prendo il cellulare e ti chiamo, ma tu non rispondi. Il telefono è staccato. So che non dovrei farlo, ma mi sento perso. So che prima dovrei mandarti un sms, ma lo leggerai? Non posso non rivederti!

Sono emozionato, ho il fiatone. Ricordo l’ultima volta che ci siamo visti, a casa di quel tuo amico regista, che poi non era un regista e a me sapeva solo di gran maiale. Eri andata via da poco, ma tu avevi già fatto l’amore con lui. Lo sentivo e te l’ho chiesto, tu hai abbassato gli occhi. Mi hai presentato come un vecchio caro amico. Dio mio! Dopo la cena sono andato via, quasi subito. Mia madre stava male. Tu mi hai accompagnato alla porta. Ricordo ancora quel bacio, intenso, profondo. Ti ho chiesto di venire via con me. “Non posso.” Mi hai risposto in fretta. Da allora solo lettere, email e qualche volta in chat. Mi raccontavi dei tuoi viaggi, del tuo lavoro, le serate a Dresda e quelle a Dublino. Sei diventata una performer. Ma cosa significa performer? Suona bene sì. Un’artista mi dicevi.

Ti cerco, sotto questa pioggia battente ti cerco, cerco il locale. Domando in giro, nessuno sa dirmi. Un tizio mi ferma e mi chiede una sigaretta, cammina come un tossico, parla come un tossico, stringe in mano una lattina di birra, vorrei accontentarlo, ma io non fumo, non ho mai fumato.
“Che ci fai in questo posto?” Mi domanda. “Sei vestito strano.”
Già sono vestito con una giacca e una cravatta e mi sento fuori luogo.
“Sto cercando un locale, ma non conosco il nome, sto cercando una ragazza, è una performer mi ha detto.”
Mi guarda fisso con i suoi occhi spiritati.
“Ah ho capito.” Mi risponde e mi fa cenno di seguirlo.
Deve essere un mestiere importante penso.
“Allora fa la puttana” Mi dice!
“Perché puttana?” Chiedo.
“Non conosco performer che non la danno.” Risponde.
Sbigottito lo seguo. Davanti ad un bar si ferma e chiede. Credo siano suoi amici, uno di loro mi chiede cinquanta euro, tiro fuori dalla tasca una banconota da venti. Ora seguo lui.

Finalmente ci sono, sulla locandina c’è scritto Mistress Nadine, ma la faccia non è la tua.
“Qui è quello che cerchi.” Aspetta ed allunga la mano.
Tiro fuori gli altri trenta euro. Penso, come avrà fatto ad indovinare?
Entro nel locale ed aspetto sopra un divanetto, nessuno mi degna di uno sguardo. La sala non è molto grande e poi è buio pesto. Nell’aria un profumo dolce misto ad odori di stoffe umide. Una cameriera col seno quasi nudo mi porta da bere. Chiedo di te. Non conosce il tuo nome, ma mi indica una porticina in fondo ad un corridoio. Le pareti sono tappezzate di velluto rosso. Lampadine gialle si alternano a litografie di scene da Belle Epoque. Busso, aspetto, ribusso, apro. Ci sono tre ragazze vestite da ballerine che si stanno truccando, ma nessuna ti somiglia. Chiedo scusa ed esco.

Penso al tossico e ai miei cinquanta euro. Mi rimetto seduto sul divano ed aspetto. Ora le luci sono accese. Le rose ingombranti sono inadatte a questo luogo, come me del resto. Passano minuti anzi ore, le dieci, le undici, il locale ora è pieno, sul palco si alternano pseudo cantanti e ballerine volenterose.

Dopo l’esibizione le ragazze si sparpagliano nella piccola platea. Girano come farfalle tra le poltroncine e i tavoli. Sono tutte belle, tacchi alti ed autoreggenti nere a rete. Si siedono sulle gambe dei clienti e si fanno riempire di complimenti e di mani. I clienti tastano, qualsiasi parte del corpo va bene, allungano le braccia e sussurrano parole viziose. Tutte hanno un sorriso rosso permanente stampato sulle labbra. Sussurrano parole senza senso. Poi si alzano quasi contemporaneamente, evidentemente il tempo è scaduto, qualche coppia scompare lungo il corridoio di velluto. Cinque, dieci minuti e poi tornano al loro posto e le ragazze come api cercano con gli occhi un altro fiore dove posarsi. Altri pantaloni, di velluto, di lana, di jeans e di nuovo si siedono. E di nuovo ridono e sussurrano parole. Gli uomini toccano, qualsiasi cosa toccano e loro si fanno toccare.

Finalmente ti vedo. Un tonfo al cuore. Corri al centro del palco. Faccio fatica a riconoscerti. Balli, canti, sei davvero brava. Il pubblico applaude, ti lancia parole irripetibili, qualcuno una rosa rossa. Tu ti muovi, sicura come una regina, ti inchini sensuale come una suddita. Mi emoziona vederti, mi emoziona sentire il tuo francese caldo. Il cilindro, la sedia, le calze a rete, i capelli corti, il body nero, aderente, ma sei tu, finalmente sei tu.

Lo spettacolo non dura molto, non più di dieci minuti, poi come le altre scendi. Ti muovi come una regina ed io ti cerco con gli occhi, tra le teste delle prime file. Dal palco mi avevi già visto. Mi vieni incontro, scosti il mazzo di rose e ti metti seduta sul divano.
“Sono per me? Grazie sei molto carino, ma non posso accettarle!”
Ora ti riconosco. Riconosco i tuoi denti. Dio come sei cambiata! I tuoi capelli sono di un nero intenso, corvino, la tua faccia troppo bianca. Il trucco pesante, il rosso fresco delle tue labbra quasi mi acceca.
“Lo sai che noi non ci conosciamo vero?" Faccio fatica a seguirti.
“Sei un cliente lo sai? Toccami le gambe, accarezzami i fianchi. Fai in fretta, non restare immobile.” Mi dici sorridendo.
Mi sento frastornato, ma ti tocco. Il tuo sedere è più magro di sempre, le tue cosce sono tenere.
“Non c’era altro modo per vederci!” Mi sussurri.
Non rispondo.
“Continua a toccarmi dai! Dimmi che sono bella e sono brava.” Ti guardi intorno.
“Mettici entusiasmo ti prego.” Per un attimo ti irrigidisci, fissi un tizio con una camicia bianca di seta seduto poco distante.
“E’ lui?” Ti chiedo.
Ora sei tu a non rispondere. Continui a sorridere, a farti toccare. Mi prendi la mano e la guidi sul collo, sui fianchi, sugli stivali lucidi di pelle.
“Devi ordinare una bottiglia, fatti dare la più costosa, così abbiamo più tempo. Fai in fretta.”
Sto per alzarmi.
“Devi dirgli il mio nome” Mi dici.
Vado alla cassa. L’addetto mi strizza l’occhio.
“Sei un intenditore, quella ci sa fare, altro che!” Mi dice. “E’ l’attrazione della serata.”
“La conosci?” Domando.
“No, ma ne ho sentito parlare. Dicono che con la bocca ci sa fare.”

Torno con la bottiglia. Anche tu mi prendi per mano. Già sono un cliente. Attraversiamo la sala, il tizio con la camicia di seta ci segue con gli occhi. Tu apri una porta foderata di velluto viola e grigio.
Entriamo. Nella stanza solo un divano, un tavolino e un mazzo di fiori finti.
Alla parete un grande specchio.
“Da lì ci può vedere, ma non può sentire.” Mi dici.
Ora riconosco la tua voce, ma è tremolante. Sei ubriaca.
“Non potrei non bere.” Mi dici.
Già lo schifo, penso.
“Non sapevo che fosse questo il tuo mestiere. Performer mi avevi detto!” Performer suona bene ti avevo risposto.
Mi guardi, respiri.
“Ma non faccio nulla, non succede mai nulla qui dentro, li accompagno nel loro piacere. Mi faccio dire quello che vogliono, ma io non parlo, non parlo mai qui dentro. Sospiro, faccio finta. Tutto qui. Devo solo fare attenzione a non sporcarmi.”
Dio come sei tenera, mi convinci, mi hai sempre convinto anche se so che non è vero. Ti abbraccio, sei piccola.
“Ti voglio bene!” Mi dici.
“Ti amo.” Rispondo.
Ti alzi. Ti guardo, mi domando quante volte abbiamo fatto l’amore. Quasi ogni giorno in quella casa, in aperta campagna.
Versi lo champagne dentro i calici. Ammiro le tue unghie lunghe, il modo come stringi il bicchiere. La tua grazia non è adatta a questo posto, penso.
Guardi l'etichetta. “Sai, con questa bottiglia hai diritto a circa mezz’ora e non solo di coccole.”
Sorrido. “Non mi basta, lo sai.”

Mi chiedi di mia madre, ma poi capisci che non è il caso di domandarmi altro. Mi chiedi della nostra casa in campagna. Già quella di mattoni e legno che non abbiamo mai finito di arredare. Non abbiamo avuto tempo! Da lì sei scappata, in nome dell’Arte, della Cultura. Ti sentivi un’artista.
“Qui soffoco.” Mi ripetevi. “Non ce la faccio!”
Passavi le ore davanti al camino, muta. Alle volte piangevi per un niente, altre ridevi senza senso. Non potevo trattenerti.
Scrivevo testi per la nostra commedia, mai finita: “Ah l’amore… l’amore è un tramonto d’autunno senza sole, l’amore è un ombrello per ripararsi quando piove, l’amore è un bordello per uomini traditi, l’amore è un coltello infilzato dentro il cuore.”
“Ricordi il nostro Controcanto, vero?”
“Sì che me lo ricordo lo avevi scritto per me…”
E senza guardarmi sussurri: “Ah l’amore... l’amore è una luce che foggia il vestito, sono lampi di notte che truccano il viso, di tutte le piogge che cadono in mare, di tutti quei soli che scaldano il cuore e intiepidiscono gli echi dei tuoni incupiti…”
E poi insieme: “Perché l’amore è una luna che inarca le curve e smussa le pene e spiana i dolori, come i cani che abbaiano al buio di notte, come tornanti che a gomiti vanno, e lasciano il gusto di meta e fatica, fin sopra le vette che piene e fiorenti, danno l’essenza, danno la forma...”

Dio quanti ricordi! Ma poi sei andata via lasciandomi sul letto un biglietto bianco senza parole. Non c’era bisogno di dire altro… Il vuoto che hai lasciato non potevi certo riempirlo con un Addio.
Mi hai mandato un’email dopo qualche giorno. Eri dispiaciuta, ma convinta della scelta che avevi fatto. E sono bastati pochi mesi per sentirti un’artista. Prima il regista, poi l’agente e infine l’impresario.
Ad ogni nuovo incontro mi scrivevi: “Con lui diventerò famosa. Ha grandi progetti!”

Ora sei qui davanti a me e ci tieni a dirmi che non ti togli mai le mutandine, che hai paura delle malattie. Mi sembra tutto assurdo. 50 euro per ogni privé, mi dici.
“Sai che quando va bene, riesco anche a farne cinque in una serata?”
Già, in nome dell’Arte, penso.

Osservo lo specchio e penso al tuo impresario che ci sta spiando.
“Lo ami?” Ti domando a bruciapelo.
“Lo sai che lo amo, perché me lo domandi? Ne abbiamo già parlato…”
Ora sei spazientita, ma mi vieni vicino. “Toccami ti prego, da lì ci vede. Toccami.”
Ti sposti. Ti metti tra me e lo specchio. “Fai attenzione lui legge il labiale.”
Mai vorrei metterti in difficoltà, lo sai. Il tuo seno mi commuove, è piccolo, una gemma appena fiorita su un ramo di pesco in febbraio, sembra quello di una bimba, non certo di una puttana.
“Scusami…” Ti dico.
Ma tu non sai perché.

Ora sei sopra di me, non so se è per lo specchio o se mi vuoi veramente, ma lo sai che non ti resisto. Ti strofini sul mio corpo, sei esperta, penso. Ora mi senti, ridi, sei contenta. Chissà quanti ne hai sentiti, ok ok attraverso la stoffa, non ti togli mai le mutandine… Cerco le tue labbra.
“Non baciarmi.” Mi ordini. “Mica sarai pazzo?”
Obbedisco. Guardo lo specchio: “Pensi che ci stia guardando?”
“Sono la sua donna.” Rispondi.
“Se fossi stata la mia donna, non staresti qui…”
“E dove? Ad ascoltare gli uccellini a primavera?” Sorridi e mi accarezzi il viso.
“Lui ti ama?”
“Lui mi considera un’artista. Dice che prima o poi mi scrittureranno per il Crazy Horse.”
“E tu ci credi?”
“Certo, ma per ora mi accontento di quatto, cinque tappi di champagne a sera.”
Sento che non è vero.
Vorrei chiederti con quanti vai a letto dopo la serata, ma rimango in silenzio.

Ora sei tu che mi cerchi. Ti lascio fare. Sfili il body. Assaporo la tua pelle. Sai di miele e di muffa, lo stesso odore dei divani. Sai di fiori recisi. I tuoi movimenti sono regolari, professionali. Vai su e giù con la testa, mi guardi fisso negli occhi. Sai cosa fare, sai dove puoi e devi arrivare.
Esiste un confine invisibile tra amante e performer. Penso. Tra amore e mestiere ma ora non distinguo. Sento le tue labbra di velluto, la morbidezza della tua lingua, aveva ragione l’addetto alla cassa. I tuoi baci sono sublimi ed io non ti resisto, basta poco e mi fai volare. Come al solito, penso.
Ti alzi, sei soddisfatta. “Ora devo andare…”
Guardo l’orologio. Esattamente trenta minuti! Sei esperta penso.
“Quando ci rivedremo?” Non rispondi.
Già che stupida domanda.

Mi prendi per mano. Usciamo dalla stanza. Ti guardo da dietro. I tuoi fianchi mi inteneriscono. Dio come sei bella!
Qualcuno sul palco canta La Vie En Rose.
“Questa è l’Arte!” Mi dici.
Questo è il prezzo della bottiglia penso. Tutto compreso.
.

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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TUTTI I RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
Photo  Evgeny Varlamov

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