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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La locanda delle Signore Belle




 


 

La locanda delle Signore Belle era fuori dal paese, in cima ad una collina chiamata Poggio Antico, vi si accedeva per una strada d’ulivi secolari, lungo il muro ricoperto di erba parietaria, e in fondo al rettilineo dove il sole fa la curva, un pergolato d’uva nera, s’apriva a tutta vista. Sopra tre finestre ognuna con un nome, sopra tre finestre ognuna per cantare, s'aprivano all’amore come una rosa di mattina, si schiudevano a quel sole che generoso tutto l’anno, maturava i pescheti e l’uva di costiera, le piantagioni di tabacco nelle lande di pianura, e si fondevano ai colori verde d’acquarello, dei versanti a pineta scoscesi fino al mare.

Nella locanda delle Signore Belle non c’era giorno di riposo, perché più propriamente non era un ristorante, e neanche una casa di cura e d’accoglienza, oppure un ricovero per novizie forestiere, un albergo per turisti alla Festa del Patrono. Vedendola di sbieco somigliava ad una signora, con il volto a tinte forti e il rossetto screpolato, un foulard attorno al collo per i segni e per l’inverno, le gambe secche secche e le dita magre magre, ricoperte da un guanto abbellito di ricami.

Ma a guardala ancora non era altro che una casa, circondata da olive grasse ed indorate, ed un recinto muro muro, ed un cancello nero nero, come tante altre in quei posti di collina, come tante altre con l’aia ed il piazzale, e un cane che dormiva con un solo occhio, tra gli attrezzi di campagna per vendemmie e mietiture.
Ma la locanda delle Signore Belle era meta tutti i giorni, di uomini curiosi, d’occhi inopportuni, di donne più discrete dai sorrisi maliziosi, che volevano toccare la leggenda con le mani, che volevano vedere quanto ci fosse di reale, su ciò che si narrava, su ciò che si diceva, attorno alla locanda a fine anni trenta, e anche nei quaranta nel bel mezzo del conflitto.

Perché la locanda delle Signore Belle era meta tutte le sere, di uomini importanti e gerarchi della zona, e membri del Partito che venivano da Roma, che venivano di sera sempre dopo cena, anonimi o in divisa celati da quel buio, che fitto si fondeva con le ombre della casa, dentro quel salone di pareti damascate, di stivali neri lustri, di mostrine e di medaglie, che s’appartavano un’ora o tutta la nottata, sopra quei divani di pelle e di velluto, con un goccio d’anisetta ed un sigaro toscano, gustavano la seta, il macramè ed i merletti, i cappelli e le perline, le gonne con le frange, di tre signore belle oppure ad una ad una, a seconda del livello e dei giochi preferiti, delle voglie e della fretta dell’ospite di turno.

E le Signore Belle venivano da tutta Italia, fuggivano dalla fame e dai posti della guerra, ed erano provinciali, venete e bresciane, ragazze contadine nate dalla terra, fertile di fiume, salmastra lungo il mare, che arrancavano in salita sotto l’ombra degli ulivi, che avanzavano a fatica con la valigia nella mano, lungo quel pendio in attesa del traguardo, ogni quindici del mese, il giorno del ricambio, qualcuna timorosa senza un filo d’esperienza, altre un po’ scollate che mostravano le quarte, tonde e saporite, con un accenno di mestiere, che sapevano di terra, sapevano di buono, e lasciavano a quegli uomini un senso d’abbondanza, di campi sconfinati gialli di frumento, di malghe di montagna cariche d’odori, di mucche partorienti, di latte appena munto.

Perché erano donne belle, baresi e siciliane, perché erano donne in carne, grasse come olive, qualcuna di città con un cuore di rossetto, sopra quelle labbra che muovevano ad arte, anche solo per parlare, altre per fumare, per mandare baci rossi, per un saluto con la mano, ed apparire affascinanti durante quel tragitto, di fianchi generosi ostentati lentamente, dentro pizzi e trine come tovaglie contadine, qualcuna con i guanti, tutte col cappello, s’atteggiavano a puttane senza averlo ancora fatto.

Perché nella locanda venivano solo le novelle, e in genere rimanevano solo due settimane, qualcuna anche un mese. ma era un’eccezione, sperdute in quel paese era un vero noviziato, aspettando la buona sorte oppure il grande salto, nel lusso dei palazzi di Napoli o di Roma, tra le pareti spesse che attutivano i cannoni, aspettando un uomo buono perso e innamorato, che chiedeva quella mano, che chiedeva quella bocca, per averla sempre pronta, per averla in esclusiva, e far di lei un’amante, segreta ed ufficiale, andandola a trovare nel talamo a giorni alterni, infilandosi di sera come un ladro circospetto, dentro quei portoni angusti e fuori mano, dentro quelle stanze profumate di violetta, di giovane mantenuta, di giorno a debita distanza.

Nella locanda le Signore belle passavano le ore, ricamando sulle tele, di lino a trama larga, e coi fili colorati seguivano i disegni, di rose e d’orchidee, di un volto di contessa, di un muso di gattino, di un giovane soldato, aspettando poi la sera, quei rumori di stivali, per sentirsi principesse nel salotto a conversare, e poi regine venerate nelle stanze al primo piano, in quei letti di campagna senza rango e condizione.

Perché nella locande delle Signore belle si era tutti uguali, e nessuno domandava chi fosse quel cliente, se fosse importante, membro del partito, oppure del governo o solo generale, perché nella locande delle Signore belle, non c’erano ceti e classi, né divise e né vestiti infangati dal rancore, né gerarchi esaltati obbedienti al potere, né puttane umiliate per fame e per dovere, né un esercito allo sbando di eroi o disertori, ma solo uomini e donne ignari del domani, due corpi caldi e nudi che cercavano il piacere, e cercavano il riscatto all’ombra della Storia, sopra quelle reti che scandivano l’amore, dentro quelle stanze scaldate da quei fiati, tra i lampi di una guerra ormai alle porte, tra i bagliori di una luna, dentro un’alba già vicina.

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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