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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La Femmina Bella




 


 
 


È sopra questa pedana che si gioca la faccia, questa faccia sfrontata di passione e di fuoco, di vita passata per ogni ruga che conta, di vita presente che scorre e la prende, e tutti intuiscono per come muove le gambe, dai passi perfetti che larghi, che stretti, si lasciano andare come una ruota e una giostra ed ognuno di loro vorrebbe provare, almeno una volta per un giro di giostra, almeno una volta salendoci a bordo, almeno una volta per farci l'amore.

Lei ostenta il suo seno di femmina bella, lo mostra abbondante perché nessuno abbia il dubbio, che non sia grano che nutre ogni bocca, che non sia latte che sfama ogni arsura, che non sia adatto per poterci giocare, per poterci ballare fino a fiaccare le gambe, per affogarci la voglia e saperlo ammansire e chiunque stanotte vorrebbe provare, chiunque baciare per sapere per quanto, s’ingozza una bocca senza riprendere fiato.

È flamenco gitano, è musica sporca, gente del sud di terra andalusa, di lunghi coltelli, di sangue e passione, baci indelebili lasciati ammuffire. È lei la femmina bella che si nega e s’apprezza, strette di cuore e muscoli duri, è rete di calza dove s’impigliano i pesci, è questo ventre che ruota, che spinge, che tenta, che nessuno finora è riuscito a zittire.

È lei che balla e si lascia guardare, perché ha tinto le labbra di rosso di miele, sbordate indecenti perché fossero grandi, un segno indelebile che nessuno confonda, come marchi a fuoco sul dorso di vacche preparate e pulite per il toro da monta. Ha cerchiato i suoi occhi di nero carbone, perché qualcuno stanotte ci possa vedere, il passato che a volte torna e fa male, il presente che ora le piace mostrare, in un riflesso più intenso che fa luce e contrasto, come occhiaie al mattino che sanno d’amore.

Apre, chiude e muove le gambe, su questa pedana che è diventata il suo palco, tra gli occhi che attenti non perdono un passo e la pigiano dove non rimane che un lembo, di pieghe di stoffa, corrotte e immorali, dove sotto ribatte la sola ragione, che l’allontana e la unisce al sogno che dona, a questi fiati che caldi l’accompagnano maschi, a queste dita che ferme la stringono a morsa, in un vortice intenso senza capo né coda dove mai nessuno può stabilire la fine.

La musica insiste e s’avvicendano in tanti, cavalieri erranti e boss di zona, muscoli duri e brividi caldi, perché è flamenco gitano che s’infila voluttuoso e lacera e squarcia l’ultimo pizzo. Balla e gira, calpesta il soffitto, continua a girare come se da lontano, il suono che sente si replicasse in un’eco, tra muri di specchi e rossi damaschi, zaffate di fiati che la fanno selvaggia. Perché è flamenco gitano, è musica nera, che le intossica il sangue e le massacra le vene, le gonfia le labbra come amante di notte, che vale per quanto l’abbia fatta godere. È odore di menta, tabacco tra i denti, è un uomo coi baffi che tocca, che palpa, è un biglietto da mille infilato tra i seni, che spunta dal pizzo e la rende diversa.

Sono carezze di memorie lontane, baci indelebili lasciati ammuffire, sbuffate di treni che fanno vapore, attorno ai ricordi che hanno perso ogni forma, ma loro giurano certi di poterla riempire, nel vuoto mai colmo d’amore e mestiere, dove amanti di notte s’affannavano a grumi, illusi d’averla dalle parti del cuore. Le stringono il petto e mite s’affida, a mani metalliche che la fanno volare, a mani callose di grasso e lavoro, sopra questo infinito di sentirla leggera, nell’anima dentro e sopra la pelle, e pensano fieri d’averla toccata, d'aver con la lingua sfiorato il suo sesso, d’averci ballato almeno una notte, almeno nel sogno se non succede stasera che il tempo non basti per l’ultimo in coda.

Sono rutti e bestemmie di paesi vicini, uomini a branchi come cani randagi e parole volgari di dialetti diversi, lamenti di mogli che aspettano sveglie, mariti ormai persi che tirano a notte, dietro una donna che li consuma e li svuota di monete straniere che fa fatica a contare, di vita che scorre tra le cosce bollenti. Eccoli ora che s‘accalcano a ressa, sono di fianco che ballano in tanti, sono sopra e di sotto e dietro e davanti ed ammaestrano e domano a passi decisi, questa femmina all’asta che conoscono appena, che apprezzano in pochi perché sa bene ballare, ed apprezzano in tanti perché mostra le tette e si lascia toccare senza aver detto mai quanto può costare una donna per tutta la notte.

Ed è flamenco gitano, è musica sporca, è sangue che scorre lungo la strada, come rigurgiti aspri risucchiati da fogne, come urla di cuore, castigo e vendetta. Sono seni abbondanti che sanno di madre, che turbano gli uomini e li fanno assassini, se per caso l’immaginano liberi al vento o ciucciati da altri per non farli appassire. E lei balla, balla e muove le gambe, libera balla ed è preda e rifiuto, bottino di guerra, pirati e tesoro, terra bruciata e fili di fumo, nel vuoto mai colmo dove amanti di notte, s’illudono d’averla amata una notte, d’averla riempita di sesso e d’amore.

Perché lei balla e si lascia guidare, remissiva poi smette e le par di sentire, l’odore più caldo dentro una musica densa, la voglia che sale mentre umida scende, tra le gambe velate di nero obbediente e dentro la bocca che muta freme dal dire, ma rimane appagata dalle sole parole, che attira e che sente volgari ed oscene.

Lei balla e non si lascia ammansire, da proposte indecenti di matrimonio e di fede, di lande di terre e denaro contante, e parole d’amore che la sfiorano appena, e parole di sesso che la invitano fitte, dentro stanze d’albergo o un motel lì vicino, dentro loculi stretti per donne in affitto, al cospetto ribelle mai femmina doma, addomesticata nel punto dove fa differenza, dove vale la pena continuare a ballare.
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  JodyFrost

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