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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La favola dell'uomo
che caricava gli orologi





 


Dicevamo,
abitava in un castello con i merli e le cicogne, abitava in un castello con tante stanze e stambugi, con un ponte levatoio circondato da un fosso, ma nell’estate calda non c’era mai acqua, e i pesci abitanti andavano al mare, lungo un piccolo emissario freddo e trasparente.

Dicevamo,
George il suo nome, aveva gli occhi grandi, e una barba ben curata, a tratti nera a tratti bianca, e un viso giovanile da trentenne o giù di lì, anche se i suoi anni arrivavano a sessanta, e chiunque in paese si chiedesse la ragione, non arrivava mai a un dunque o una conclusione, ed i perché e i come mai restavano delusi, circa la sua pelle, bella e levigata, circa il suo viso vellutato come pesca, e come mai quelle labbra e tutti i denti sani.

Dicevamo,
non aveva avuto un titolo o un ruolo nobiliare, né principe o barone, né stalliere o autista, ma nemmeno figlio o padre, marito o amante, lui era lui, dentro quel castello, forse un trovatello, figlio innaturale, di serva o principessa, di sguattera o regina. Comunque era nato dentro quelle mura, nel cono della luna come spesso ripeteva, e il suo compito fin da bimbo fu sbrigar faccende, annaffiare piante e fiori e spolverare gli orologi, rimettere i minuti, di rado qualche ora.

Dicevamo,
il conte vedovo poi morì senza avere eredi, e lui al capezzale giurò con tutto il cuore, che mai in quel castello, anche per un solo istante, la sua anima nel tempo si sarebbe più fermata. Per questo si dedicò soltanto agli orologi, per questo diventò un caricatore umano, per questo li curò come fossero suoi figli, come fosse una fiammella eterna e sempre viva, e nonostante governasse il tempo, non aveva altro tempo, e nonostante lo subisse si sentiva ripagato, da quel perpetuo ticchettio che riempiva l’esistenza, le stanze vuote del castello, i lunghi corridoi, la buonanima del conte e l’eterna dedizione.

Dicevamo,
la mattina si svegliava prima d‘ogni alba, iniziava il suo giro stanza dopo stanza, e scale e ballatoi e torri, nicchie e sgabuzzini, per poi riposarsi sopra un merlo di tufo maschio, tra i nidi di cicogne e le nuvole più basse, tra i boschi in lontananza e le fanciulle ancora in fiore. Da lontano le contava, ogni volta ventiquattro, distante le ammirava in segreto tra quei merli, e loro cinte da ghirlande di boccioli d’ogni fiore, si tenevano per mano di corsa lungo il fiume, e cantavano le strofe nell’attesa dell’amore, e cantavano le nenie per farlo innamorare.

Dicevamo,
amava i suoi orologi, le pause e le frenate, perché ogni creatura aveva la sua natura, che lui chiamava umore, o indole o carattere, che lui chiamava tacche e lancette e meccanismo, ma soprattutto tempo che batteva come un cuore, oppure andamento, mai perfettamente uguale, perché non tutti completavano durante il giorno, il doppio giro dei quadranti, i quarti o le sestine, o lo spazio tra le tacche, all’incirca in un’ora.

Dicevamo,
per aver cura di tutti e non saltarne uno, ogni orologio segnava un’ora propria, e non era importante chi segnasse l’ora esatta, ma chi prima o chi dopo, terminasse il proprio giro, dando insieme l’idea dell’eterno, dell’assoluto e l’immortale. E per governare il tutto c’era un solo modo, ordinare i cucu in modo progressivo, in modo che battessero uno dopo l’altro, in base ad un sistema cadenzato a tempo fisso.

Dicevamo,
questo il suo segreto, questa la giovinezza, anche se a fatica, anche se gravosa, basata sul principio di quanto è lungo invecchiare, e per rimanere giovani non si può fermare il tempo, ma accompagnarlo e seguirlo in ogni suo secondo, e viverlo intensamente e badare al proprio tempo. E le fanciulle in fiore che cantavano l’amore, si tenevano distanti dal fosso e dal castello, ma erano affascinate dall’uomo e dal suo tempo, dal caricatore di orologi che mai avrebbe perso tempo.

Dicevamo,
le sue giornate traboccavano di tempo, ma non per questo aveva tempo, tempo per se stesso, tempo per l’amore, finché bussò un giorno una fanciulla in fiore, forse perché bella, o forse perché bionda, come il grano e come il miele, oppure come il sole quando riflette nello stagno.

Dicevamo, lei non si scoraggiò quando lui aprì le braccia, e le disse sconsolato che lì non c’era tempo, per un bacio o una carezza, ma solo tempo per il tempo. Ma si sa che poi il destino gioca brutti scherzi, e proprio in quel momento percepì una stonatura, un orologio si fermò e non ne volle più sapere, lui corse nella torre e prese i ferri del mestiere, e nonostante lui provasse, a rianimarlo con amore, il poveretto non tornò mai più in questa vita. George affranto provò a sostituirlo, prese altri orologi anche più antichi, ma nessuno di questi riuscì a ricreare, quell’armonia perfetta, quell’ordine di suoni al tempo conclamato, quel canto di secondi senza mai fine.

Dicevamo,
e fu lì che la fanciulla in fiore lo vide affranto e disperato, e gli chiese il motivo, e gli chiese di parlare, ma lui rimase assorto con il suo ghigno in pena, e lei non resistette di fronte alla tristezza, e lo riempì di baci, di premure e di carezze, e in uno slancio di ardore si offrì di sostituire, l’orologio morto con il battito del suo cuore. Forse perché congenito o forse per dolcezza, o perché solo nelle favole tutto questo può accadere, sarà o non sarà, ma il suo cuore in quel castello prese l’andamento giusto, senza mai perdere colpi, men che meno mai starare, come se quell’orologio non fosse mai morto, come se avesse un bilanciere nel suo cuore di fanciulla, come se avesse tempo, ma era solo amore.
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  AnaLuar

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