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Adamo Bencivenga
La commessa

Sarà che tra poco saranno le sette, e stanca mi inoltro
per le strade di sera, obbediente mi lascio guidare dal
vento, che soffia e s’insinua e porterà pioggia. Le
vedo, le nuvole basse, che s’addensano nere e fanno
paura, mi velano gli occhi che sia sera e poi notte, mi
crucciano il cuore d’un altro giorno che passa, e nulla
è successo nonostante i miei tacchi, e nulla è successo
nonostante il rossetto, la gonna, il cappello, la prima
volta che metto, e m’illudo che solo così possa bastare,
a farmi posare quel sorriso che bramo, per non essere
sola almeno stasera.
Ho preso l’ombrello per
ripararmi se piove, per essere bella, per essere
intatta, dal trucco ai capelli che escono in parte,
dalle gambe alle mani che vedo diverse, negli occhi di
gente che passa più in fretta, e sorpresa rimango a
vedere il riflesso, nella vetrina che addobbo, adorno e
preparo, tra liste di nozze di tovagliati e bicchieri,
che vendo e guarnisco come un sogno, un miraggio, a
giovani coppie che si fanno guidare, come se tutto
questo portasse l’amore, la pace nel cuore in una casa
diversa.
“Io vado, buonasera!” Sono anni che
indugio prima di uscire, perché lui mi guardi, mi noti e
magari m’apprezzi, perché senza il grembiule sono ancora
più bella, di come gli appaio fino a quest’ora, e come
sarei se per caso volesse, guardarmi in penombra,
ammirarmi le gambe, seduta in poltrona o sul bordo di un
letto, e una calza che ammicca nel vedo e non vedo.
Lui è sposato, di religione diversa, ha una moglie,
un’amante e un figlio che studia, una villa sul lago e
questo negozio, a due passi soltanto da Piazza Navona.
Come faccio a spiegargli che non m’interessa, mettermi
in gara con le donne che ama, che non cerco l’amore, ma
un surrogato che ostento, almeno nel seno che mostro
evidente, mentre m’inchino per farlo notare, anche se
poi non è tanto abbondante, quanto due mele colte prima
del tempo.
“Ma come è possibile, che non se ne
accorga!” Se solo mi prestasse un po’ d’attenzione!
Potrei raccontargli cosa faccio la sera, che faccio tre
volte il giro di casa, per chiudere il gas e la porta
d’entrata, per prepararmi una brocca d’acqua e limone,
che mai m’è servita durante la notte. Potrebbe chiedermi
perché mi trucco, quando spengo la luce e mi metto a
dormire, e perché non mi spoglio e rimango vestita, e mi
lascio le calze nere velate, e mi lascio le scarpe con
tacco da sogno, perché se davvero l’incontrassi nel
sogno, non vorrei davvero mi trovasse dimessa, con i
capelli arruffati e la camicia da notte.
Saranno
manie di una donna che sola, ha vissuto da sempre
badando a se stessa, cercando nei dettagli di un giorno
che muore, il senso del vuoto prima dell’alba. Ne ho
avuti di uomini! Ogni tanto li conto, tra foto e poesie
e biglietti di treno, di fiati d’amore che mi scaldavano
i seni, e lasciavano fredda la parte del cuore. Ne ho
avute di bocche che mi scaldavano i fianchi, i piedi, le
dita per essere regina, il collo, le orecchie per essere
amante, ma nessuno di loro ha soddisfatto il bisogno,
come ora mi sale ogni giorno alle sette, ogni sera che
spero che lui mi trattenga.
“Buonasera
Signorina.” Sono anni che mi chiama in quel modo,
nonostante da tempo ho passato i quaranta! Se solo
pensasse di chiamarmi per nome, mi darebbe la forza
almeno d’osare, almeno un sorriso ammiccante e
distratto, almeno un bottone per vedere nei suoi occhi,
se il paradiso è davvero a portata di mano, in fondo
alle scale che faccio ogni giorno, dentro un budello di
scatole e cocci, servizi spaiati di tazzine e coltelli,
Limoges e Boemia coi fiori di pesco.
Come nei
film tra negozianti e commesse, tra lamenti e passioni
che consumano in fretta, avidi istinti di fuoco e di
carne, soffocando le urla con i baci al riparo, di mogli
alla cassa e clienti noiose, che reclamano sconti come a
Porta Portese o s’affollano a ressa nei giorni di saldi.
È un antro buio di polvere e muffa, ma per me un
paradiso di sensi e d’attesa che mi fa pensare a una
donna che solleva la gonna, e s’abbandona al gusto di
non stare in un letto, lasciandosi indosso reggiseno e
mutande, per non perdere tempo e non fare rumore.
Mi fa pensare a un uomo in giacca e cravatta che
scende la lampo quel poco che basta, e spunta tra i
denti la sua voglia orgogliosa, d’avere una donna che è
solo commessa, e neanche un’amante sarebbe più brava,
quando lo guida nel desiderio impellente, proprio là
dove escono oscuri, bisogni notturni che si calmano
appena, al primo sfiorarsi di dita e di unghie.
Chissà se quest’uomo che mi saluta distratto, ha capito
davvero che basterebbe poi nulla, perché la ragione non
fa bene all’amore, e il sentimento non spaia vetri e
servizi, di cristalli e bicchieri che valgono un occhio,
di piatti Limoges con i fiori di pesco. Sono pensieri di
una donna che esce, ogni sera alle sette e lui non
capisce, perché mai finora m’ha chiamato per nome,
nemmeno gioia o tesoro se non ricorda davvero, che mi
chiamo Giovanna e sono anni che aspetto, di rimanere
ferma ad ammirare il bisogno, gli occhi di un uomo che
ama una donna, e la prende davanti e la prende di
fianco, e la morde coi denti per sentire il possesso, mi
infila due dita nella bocca che urla, mi divide le gambe
come spaia servizi, per sentirne il sapore e vedermi
capiente, che belle, che snelle si divaricano storte,
per essere meta d’ogni forza di sesso, ogni colpo che
assesta mirando il bersaglio.
Poi si ferma
insicuro e mi tappa la bocca, per un rumore sospetto,
per sua moglie che chiama, che vale ben oltre un sesso
rubato, di fiati che muti rimangono in gola, che ora
zittisce spingendomi in bocca, parole che sanno di
bordello e di sesso, che sanno di sporco e non
colpiscono il cuore, ma centrano in pieno l’anima
aperta. È un attimo solo ma sembra una vita, poi torna
sicuro finito il rumore, e mi chiama col nome di una sua
vecchia amante, e mi chiama signora e mi chiama
commessa, ed ora pretende che urli convinta, che mai
fino ad ora m’era successo, che mai fino ad ora nessun
uomo al suo pari, e pigia, e preme, e sale e non scende,
perché non c’è fine nel vuoto che sento, non c’è altro
orgasmo che possa bastare, a farlo sentire padrone
indiscusso, d’una donna che freme tra scatole e cocci,
avanzi invenduti che non servono ad altro, se non al
pensiero di possedere una donna, commessa di sopra ed
amante qui in basso, in un sottoscala come suite
d’albergo, e ovunque lui voglia, ovunque gli aggradi,
senza la noia di invitarmi a cena, di farmi un regalo,
di farmi la corte, fingere amore e giurare che sono poi
bella.
Vorrei solo pregarlo che finito l’amore,
non mi faccia domande perché non ci sono risposte, se
come stasera non dovrò correre a casa, né suocera e
figlia e guardar l’orologio, né marito che scruta la
gonna sgualcita, che annusa l’odore di voglia di
maschio. Che mi strappi le calze se ha bisogno di farlo,
che mi bagni la pelle fino alle ossa, e poi ci ritorni
per sentire il possesso, di una donna che geme, che cede
e si sazia, ma faccia attenzione a non lasciarmi
indelebile, un segno qualunque, sulla mia pelle, che
uccida il mio sogno, che uccida l’attesa, che mi faccia
temere che il giorno che cerco, l’ho vissuto stasera e
non serve sognare.
Mi dica se ha voglia e mi
chieda altro tempo, mi chieda la notte, mi prometta la
luna, ma sappia che all’alba sparisco nel nulla, perché
nella luce che nasce mi ritrovo da sola, nel letto a
pensare che sia un giorno d’attesa, un giorno dei tanti
come quelli passati. Come oggi che credo che ci sia sera
e poi notte, che posso decidere di non tornarmene a
casa, senza vincoli e lacci affidandomi al caso,
aspettando un sorriso che passi per caso, aspettando
quest’uomo che non ha ancora capito, che l’amore che
cerco non è fatto di rose, ma fiori di pesco che cadono
in pezzi, di bicchieri e stoviglie che sento distinti,
mentre alzo lo sguardo ed apro l’ombrello...
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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