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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La commessa




 

Sarà che tra poco saranno le sette, e stanca t’inoltri per le strade di sera, obbediente ti lasci guidare dal vento, che soffia e s’insinua e porterà pioggia. Le vedi le nuvole basse, che s’addensano nere e fanno paura, ti velano gli occhi che sia sera e poi notte, ti crucciano il cuore d’un altro giorno che passa, e nulla è successo nonostante i tuoi tacchi, e nulla è successo nonostante il rossetto, la gonna, il cappello, la prima volta che metti, e ti illude che solo poi possa bastare, a farti posare quel sorriso che brami, per non essere sola almeno stasera.

Hai preso l’ombrello per ripararti se piove, per essere bella, per essere intatta, dal trucco ai capelli che escono in parte, dalle gambe alle mani che vedi diverse, negli occhi di gente che passa più in fretta, e sorpresa rimani a vedere il riflesso, nella vetrina che addobbi, adorni e prepari, tra liste di nozze di tovagliati e bicchieri, che vendi e guarnisci come un sogno, un miraggio, a giovani coppie che si fanno guidare, come se tutto questo portasse l’amore, la pace nel cuore in una casa diversa.

“Io vado, buonasera!” Sono anni che indugi prima di uscire, perché lui ti guardi, ti noti e perfino t’apprezzi, perché senza il grembiule sei ancora più bella, di come gli appari fino a quest’ora, e come saresti se per caso volesse, guardarti in penombra, ammirarti le gambe, seduta in poltrona o sul bordo di un letto, e una calza che ammicca nel vedo e non vedo.
Lui è sposato, di religione diversa, ha una moglie, un’amante e un figlio che studia, una villa sul lago e questo negozio, a due passi soltanto da Piazza Navona. Come fai a spiegargli che non t’interessa, metterti in gara con le donne che ama, che non cerchi l’amore, ma un surrogato che ostenti, almeno nel seno che mostri evidente, mentre t’inchini per farlo notare, anche se poi non è tanto abbondante, quanto due mele colte prima del tempo.

“Ma come è possibile, che non se ne s’accorga!” Se solo ti prestasse un po’ d’attenzione! Potresti raccontargli cosa fai la sera, che fai tre volte il giro di casa, per chiudere il gas e la porta d’entrata, per prepararti una brocca d’acqua e limone, che mai t’è servita durante la notte. Potrebbe domandarti che ci fai truccata, quando spegni la luce e ti metti a dormire, e perché non ti spogli e rimani vestita, e ti lasci le calze e ti lasci le scarpe, perché se davvero l’incontrassi nel sogno, non vorresti davvero ti trovasse dimessa, con i capelli arruffati e la camicia da notte.

Saranno manie di una donna che sola, ha vissuto da sempre badando a se stessa, cercando nei dettagli di un giorno che muore, il senso del vuoto prima dell’alba. Ne hai avuti di uomini! Ogni tanto li conti, tra foto e poesie e biglietti di treno, di fiati d’amore che ti scaldavano i seni, e lasciavano fredda la parte del cuore. Ne hai avute di bocche che ti scaldavano i fianchi, i piedi le dita per esser regina, il collo le orecchie per essere amante, ma nessuno di loro ha soddisfatto il bisogno, come ora ti sale ogni giorno alle sette, ogni sera che speri che lui ti trattenga.

“Buonasera Signorina.” Sono anni che ti chiama in quel modo, nonostante da tempo hai passato i quaranta! Se solo pensasse di chiamarti per nome, ti darebbe la forza almeno d’osare, almeno un sorriso ammiccante e distratto, almeno un bottone per vedere negli occhi, se il paradiso è davvero a portata di mano, in fondo alle scale che fai ogni giorno, dentro un budello di scatole e cocci, servizi spaiati di tazzine e coltelli, Limoges e Boemia coi fiori di pesco.

Come nei film tra negozianti e commesse, tra lamenti e passioni che consumano in fretta, avidi istinti di fuoco e di carne, soffocando le urla con i baci al riparo, di mogli alla cassa e clienti noiose, che reclamano sconti come a Porta Portese o s’affollano a ressa nei giorni di saldi. E’ un luogo romantico se l’odore che senti, ti fa pensare ad una donna che solleva una gonna, e s’abbandona al gusto di non stare in un letto, lasciandosi in dosso reggiseno e mutande, per non perdere tempo e non fare rumore. Ti fa pensare ad un uomo in giacca e cravatta che scende la lampo quel poco che basta, e spunta tra i denti la sua voglia orgogliosa, d’avere una donna che è solo commessa, e neanche un’amante sarebbe più brava, quando lo guida nel desiderio impellente, proprio laddove escono oscuri, bisogni notturni che si calmano appena, al primo sfiorarsi di dita e di unghie.

Chissà se quest’uomo che ti saluta distratto, ha capito davvero che basterebbe poi nulla, perché la ragione non fa bene all’amore, e il sentimento non spaia vetri e servizi, di cristalli e bicchieri che valgono un occhio, di piatti limoges con i fiori di pesco. Sono pensieri cattivi di una donna che esce, ogni sera alle sette e lui non capisce, perché mai finora t’ha chiamato per nome, nemmeno gioia o tesoro se non ricorda davvero, che ti chiami Giovanna e sono anni che aspetti, di rimanere ferma ad ammirare il bisogno, gli occhi di un uomo che ama una donna, e la prende davanti e la prende di fianco, e la morde coi denti per sentire il possesso, le infila due dita nella bocca che urla, le divide le gambe come spaia servizi, per sentirne il sapore e vederle capienti, che belle, che snelle si divaricano storte, per essere meta d’ogni forza di sesso, ogni colpo che assesta mirando il bersaglio.

Poi si ferma insicuro e ti tappa la bocca, per un rumore sospetto per sua moglie che chiama, che vale ben oltre un sesso rubato, di fiati che muti rimangono in gola, che ora zittisce spingendoti in bocca, parole che sanno di bordello e di sesso, che sanno di sporco e non colpiscono il cuore, ma centrano in pieno l’anima aperta. E’ un attimo solo ma sembra una vita, poi torna sicuro finito il rumore, e ti chiama col nome di una sua vecchia amante, e ti chiama signora e ti chiama commessa, ed ora pretende che urli convinta, che mai fino ad ora t’era successo, che mai fino ad ora nessun uomo al suo pari, e pigia, e preme, e sale e non scende, perché non c’è fine nel vuoto che senti, non c’è altro orgasmo che possa bastare, a farlo sentire padrone indiscusso, d’una donna che freme tra scatole e cocci, avanzi invenduti che non servono ad altro, se non al pensiero di possedere una donna, commessa di sopra ed amante qui in basso, in un sottoscala come suite d’albergo, e ovunque lui voglia, ovunque l’aggradi, senza la noia di invitarla a cena, di farle un regalo, di farle la corte, fingere amore e giurare che è bella.

Vorresti solo pregarlo che finito l’amore, non ti faccia domande perché non ci sono risposte, se come stasera non dovrai correre a casa, né suocera e figlia e guardar l’orologio, né marito che scruta la gonna sgualcita, che annusa l’odore di voglia di maschio. Che ti strappi le calze se ha bisogno di farlo, che ti bagni la pelle fino alle ossa, e poi ci ritorni per sentire il possesso, di una donna che geme, che cede e si sazia, ma faccia attenzione a non lasciarti indelebile, un segno qualunque, sulla tua pelle, che uccida il tuo sogno, che uccida l’attesa, che ti faccia temere che il giorno che cerchi, l’hai vissuto stasera e non serve sognare.
Ti dica se ha voglia e ti chieda altro tempo, ti chieda la notte, ti prometta la luna, ma sappia che all’alba sparisci nel nulla, perché la luce che nasce ti ritrovi da sola, nel letto a pensare che sia un giorno d’attesa, un giorno dei tanti come quelli passati. Come oggi che credi che ci sia sera e poi notte, che puoi decidere di non tornartene a casa, senza vincoli e lacci affidandoti al caso, aspettando un sorriso che passi per caso, aspettando quest’uomo che non ha ancora capito, che l’amore che cerchi non è fatto di rose, ma fiori di pesco che cadono in pezzi, di bicchieri e stoviglie che senti distinti, mentre alzi lo sguardo ed apri l’ombrello.
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo   EdwinFirminger

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