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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Il profumo dei limoni




 
 
Lei scese da una balilla rosso amaranto, lei scese eterea come una farfalla regina, col suo cappello verde di stoffa leggera, il suo rossetto deciso come le fragole a maggio, e un vestito di seta color giallo limone, che ammiccante seguiva i suoi fianchi sinuosi, e fasciava il suo seno dandolo in pasto, allo sguardo curioso dell'uomo seduto.
L'uomo si chiese se fosse un’attrice, oppure una modella, un soprano leggero, se l'avesse già vista in qualche cena di gala, o se ne avesse per caso già assaporato le grazie, in qualche letto d'albergo o una spiaggia lontana. Poi inforcò gli occhiali per ammirarla in viso, ma no, non le ricordava nessuna, e allora si chiese quanti giorni sarebbe rimasta, con quella valigia troppo ingombrante, troppo pesante per quel corpo sottile, troppo grande per contenerci un passato, avendo sì e no la metà dei suoi anni.

L’aveva vista scendere ed arrestarsi di colpo, una smorfia sul viso e due occhi impazienti, come se cercasse un aiuto o un addetto, e le fosse dovuto almeno il servizio. Lui, vestito tutto di bianco e un cappello di paglia, con una gerbera rossa all’occhiello, si gustava un Pernod e un giornale locale, stupito che in quell'albergo per vecchi, ci fosse posto per così tanta bellezza, e potesse arrivare senza preavviso, una giovane dea, un’eterea grazia, figlia di un flutto o di un guscio di mare, Venere in carne adatta all'amore. Per un attimo incredulo rimase a pensare, non gli pareva vera quella fortuna sfacciata, di rendersi utile a quei due occhi di scoglio, a due labbra velate da un filo di rosso, a quei capelli lasciati spaiare dal vento, a quella forma del viso di un tondo perfetto.

Giammai comunque si sarebbe alzato, giammai teso personalmente la mano, un po’ per pigrizia, per rango e per stile, e poi di sicuro per nulla era a modo, che lui ospite si fosse abbassato, a umile addetto o mero facchino. Si tolse il cappello e fece un cenno d'inchino, poi con estrema lentezza schioccò le sue dita, e subito dall'hall uscì un inserviente, un piccolo uomo in uniforme d’albergo, che vedendo la donna le corse in aiuto.

Lei passò accanto all’uomo e spontaneamente sorrise, lui gradì la fragranza di viola e sapone, quel portamento regale d'eleganza italiana, che durò giusto il tempo per sfidare il suo estro, di farci amicizia e conoscerla meglio. La donna gradì quel fare cortese, quell’antica maniera d’approcciare la donna, ma rimase il tempo per un saluto fuggente, desiderosa solo di una doccia e di un letto, per via del caldo, del viaggio e del treno.

L'albergo era posto tra due lingue di mare, un antico edificio a torretta normanna, circondato da siepi di gelsomino cinese, e immerso nel verde e fiori d'ibisco, con una grande terrazza merlata, e sotto i merli solo sei stanze, due delle quali erano vuote, e nelle altre occupate, nell’unico piano, soggiornavano una coppia belga fiamminga, e un commerciante d'Ancona con suo figlio e la tata.

La sera cenarono tutti insieme in veranda, era il sette di luglio e il tempo era incerto, la bella stagione sembrava tardare, e la brezza marina soffiava leggera, sui tavoli tondi, sulle tovaglie di raso, sul buon vino fruttato bianco frizzante, sul menù fisso a base di pesce. Lei gradì un'insalata di tonno, con uova, gamberi e un velo di aceto, lui una tagliata di pesce con una salsa di timo ed un’erba di campo con sale e limone. Erano vicini di tavolo, lui le sorrise e lei ricambiò, abbozzarono insieme quattro chiacchiere a modo, lui disse che il tempo sarebbe cambiato, lei disse “speriamo” senza trasporto, poi nulla, tranne a due passi, il rumore del mare.

La creme chantilly venne servita in terrazza, il limoncello era al giusto punto di freddo, ed è lì che lui disse piacere Luigi, ed è lì che lei rispose Anita Maria, e quello fu il prologo, l'inizio e il dovere, di raccontare se stessi o stare a sentire. Così lui seppe che aspettava qualcuno, e il giorno dopo alle cinque non sarebbe stata più sola. Certo lui avrebbe sperato ben altro, che fosse lì per una delusione d’amore, magari solo più tempo per approfondire, ma c’era comunque una notte da riempire.
Così lei seppe che lui aspettava suo figlio, e che dopo tre anni si sarebbero visti, anche se lui non disse il motivo e lei non lo chiese, ma a giudicare dalla luce degli occhi, era evidente che gli facesse piacere.

Commentarono insieme la guerra lontana, la difficoltà di viaggiare e i ritardi imprevisti, il blocco dei treni, le strade insicure, e per questo motivo lei stava aspettando, e per questo motivo lui era in attesa. E nel silenzio di quella notte stellata, lui le fece notare il fascio di luna, poi fece cadere quel pensiero bizzarro, e chiese permesso e le augurò “Buonanotte”. Lei rimase per un attimo ancora, affacciata sul sogno bagnato dal mare, pensando al suo uomo già in viaggio sul treno, desiderava con ansia che fosse domani, la promessa, l’anello, il fidanzamento ufficiale.

La mattina seguente erano di nuovo vicini, l’odore dei limoni si confondeva con l’aria, lui gradì il cappello bianco di lei, lei la barba candida portata con cura, ed entrambi la colazione a base d’agrumi, e latte di mandorla ed una fetta d’anguria. Il mare era calmo, il cielo di un limpido terso, lei indicò una barca a vela, lui un pescatore cotto dal sole. Invogliato dalla bella giornata, lui le propose una passeggiata sul mare, lei accettò e lui le porse il suo braccio, fecero due passi fino in paese, trai banchi del mercatino estivo lui le donò una rosa, lei gradì, ma poi stanca volle rientrare.

Nella veranda dell’albergo si riposarono leggendo, lei era al terzo capitolo dell’Amante di Lady Chatterley, lui al quinto del Grande Gatsby, si scambiarono opinioni, sensazioni e sguardi, lui si domandò il motivo, per lei non fu necessario. A quel punto l’uomo non si fece pregare e la invitò affabilmente nella sua stanza, per un bicchiere di latte e menta, per un thè allo zenzero verde, oppure per il solo diletto di annusare i limoni, oppure per altro che al momento non disse. Lei sorrise e gradì quell’invito, era quasi mezzogiorno ed ebbe l’ardire, di un pranzo frugale sul terrazzino privato, lui allora ordinò il pranzo e insieme salirono nella sua stanza.

Dopo il pranzo l’ombra della tenda non era più gradevole, il sole a picco picchiava sulle pareti bianche, sull’edera nuova e le belle di notte, sulla pelle di lui, sul cappello di lei. Decisero di rientrare, lei allo specchio si ricompose, un filo di rossetto aggraziò le sue labbra, lui si avvicinò e annusò la sua spalla, lei lo guardo attraverso lo specchio e non ci fu altro da dire.

Ed è lì che si sfiorarono per la prima volta, ed è lì che lui la strinse e lei si fece abbracciare, poi si tolse il cappello e lui la giaccia. L’uomo non esitò e lei non fu da meno, lui la guidò e lei si fece guidare. Ed è lì che lei gli offrì le sue labbra fresche di velluto, ed è lì che lo invitò con garbo e malizia ad abbassare la lampo che con malizia correva dietro il vestito. Poi accennò a Lady Chatterley, lui a Jay Gatsby e a Daisy Fay, e insieme risero, e insieme si distesero sul letto, poi lui la baciò evitando il suo seno, come fosse una ciliegia da gustare alla fine. Non chiese permesso e lei lo invitò tra le sue grazie, e furono baci tra le gambe, e furono gemiti proibiti, e nettare denso di fragola e miele, che lui assaggiò da quella sorgente che copiosa sgorgava desiderosa d’amore. Poi lui la prese e lei si abbandonò sotto i colpi di quel maschio impaziente, che fiero saliva, che superbo scendeva, e fecero l’amore quello vero con la finestra aperta e il mare vicino, tra il profumo di limoni e l’odore dell’ibisco.

Alle 16,30 lei guardò l’orologio e con un velo d’apprensione, disse che il suo uomo sarebbe arrivato con il treno delle 17,00 e che il suo Osvaldo era molto geloso, per cui le rimaneva solo il tempo per una doccia, per lavare i segni di quel pomeriggio e l’odore di ibisco e l’odore di limoni.
Anche lui si rese conto di quanto fosse tardi, suo figlio sarebbe arrivato alla stessa ora, ma non disse il nome cercando di scollarsi l’imbarazzo. Si salutarono in fretta e lei disse ricomponendo il suo cappello: “Sarà un piacere conoscere tuo figlio.” Poi chiese: “Prenoto un tavolo per quattro per la cena?” Lui la guardò, ma non rispose.

Forse sorrise quando lei chiuse la porta, forse pensò al destino beffardo, di certo rimase per un attimo ancora sul letto, guardò il soffitto, la finestra aperta, il profumo di limoni invase la stanza e pensò che suo figlio aveva fatto un’ottima scelta e che per quel tavolo sarebbe stati sufficienti tre posti…


 









 



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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo   NikkiHarrison

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