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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Il Pittore e la Modella





 

Silenziosa s’immerge nei chiaroscuri di verde, nell’intimo muto d’un ritaglio a quest’ora, d’ombre di pini, di nebbia che cala, tra le foglie rossastre in tinta perfetta, col sole che muore al di là delle chiome, con la luce imbrunita che filtra e traspare, e intermittente si posa sul cappello di panno, sul vestito leggero di mezza stagione, che ingentilisce ubbidiente la curva dei fianchi, e lascia alla vista la forma del seno, che ammicca vezzosa tra il vedo e non vedo.

Il parco di fronte è umido e freddo, l’odore di resina mieloso l’avvolge, mentre incede sinuosa e attraversa il cancello, di ruggine e ferro, di nero battuto, lungo i tronchi di palme, la ringhiera scrostata, quando scende le scale e precaria sui tacchi, ne sente il rumore e le piace scandirlo, perché sa di donna e d’ottobre che arriva comunque, di ghiaia al tramonto e di vento che spira, perché sa di lei e di lui che la guarda e la segue, ogni giorno la scorta come fosse un tesoro, e garbato a due passi trattiene il respiro, tra la luce sbiadita che a quest’ora si vela, e si rassegna alle ombre che avanzano fitte.
Eh sì che la segue, impalpabile all’aria, eh sì che la segue come se non ci fosse, come se lei fosse sola in questo viale d’autunno, e lui solo l'ombra della gonna leggera, un’ombra che appare e scompare nel nulla, tra le siepi più spesse e gli alberi sparsi, tra le foglie d’alloro per farci corone, e l’odore raffermo di terra rimossa, che cova altri semi per la bella stagione.

Lui la guarda a distanza, taciturno e leggero, conta i suoi passi regolari sui tacchi, li appaia e li spaia accomunandone il suono, le note più acute sui tasti di un piano, che bianchi che neri si fanno bemolle, fino a che in uno slargo lei incerta si ferma, e la musica intera s’arresta del tutto, lasciando ad un muto silenzio irreale, la scelta più adatta tra le panchine ormai vuote, poi a caso si siede sulla prima che guarda, tra i salici folti nel lento incupire, le terrazze ed i tetti, le cupole grigie, le croci dorate e i tanti gatti di Roma.
Perché lui sa, che lei si lascia rapire, da questa figura di donna un po’ triste, fuori moda e retrò di fine ottocento, un po’ decadente che si immerge nel sogno, quando prende i suoi trucchi e si guarda allo specchio, e scruta il dettaglio, la pennellata che sfuma, che carica e scura all’altezza degli occhi, diventa più grigia, poi perla ed avorio, con un punto d’arancio smorzato nel centro, con un tocco di nero deciso e sicuro, che a tratti poi allunga per marcare i contorni, come ali spiegate di farfalla regina, fino a che poi s'appaia o scompare del tutto, al colore di pelle, all’intorno in penombra.

Lei fissa e rifissa un dettaglio qualunque, un vaso di fiori, una filippina che stende, un uccello sparuto indeciso da sempre, se prendere il volo per lidi più caldi, come lei che dubbiosa ci pensa due volte, se levarsi il cappello e liberare i capelli, od alzare d’un niente la veletta che porta, per fargli notare quanta cura ci mette, a disegnare la riga che contorna le labbra, a spalmarsi quel tono di rosso perfetto, per farlo impazzire quando spreme i tubetti. E lui guarda la tela e guarda quel viso, intinge i pennelli nel sole al tramonto, come se fosse un tuorlo di uovo non cotto, e mischia i colori per rifarlo più esatto, alla tinta che sfuma e densa propaga, riflessi di luce quando schiude il sorriso.

Appena un accenno, un niente dabbene, che s’increspa laddove un ricordo più forte, batte e ribatte sulla ferita che duole, che mai nel suo tempo s’è rimarginata del tutto, e la trova bambina e poi ancora più adulta, a contare le stelle che non sono cadute, a indicare le nubi che a velo ed a stracci, formano incerte continenti e figure, oppure dei visi dalle forme cortesi, o solo degli occhi, dei nasi, le bocche, che a volte poi cuce perché siano facce, dove a volte si specchia ed altre riflette.

Lui non dice e non parla benché mai l’abbia fatto, benché mai le abbia detto nemmeno buongiorno, anche se a volte in un insolito slancio, almeno ci crede, almeno a lei pare, ha respirato più forte cercando attenzione. E si mette a tre metri ed alle volte più indietro, sul terriccio rimosso ma non lascia le forme, come se fosse essenza, come se non ci fosse, muto la scruta, zitto la cerca, per scovare la luce che le aggrazia le forme, per seguirla ubbidiente quando il profilo sfarfalla, e rimane un contorno di cielo e di pini, e rimane il profilo di un’anima pura, che lui incerto disegna a forma di donna.

Ma in un attimo a caso lei s’alza e cammina, leggera ripassa un tragitto comune, che è mente e pensiero, un’intesa studiata, proprio quando il pennello deciso colora, un ritratto a tre quarti, una traccia più scura, uno sguardo sognante che guarda la sera.

Lei fa quattro passi per concentrarsi di nuovo, per respirare nell’aria, l’estro e l’ardore, misto all’odore di magnolia sfiorita, alla posa che ora s’immerge e s’affaccia, nel vuoto di giallo e di ocra che a sfoglia, le indora il vestito, le braccia e i capelli. Poi indietro ritorna, lentamente poi torna, s’aggiusta la calza ed addrizza la riga, e poi si risiede ed accavalla le gambe, e dondola il tacco per simulare l’attesa, mentre muta s’immerge come se questo parco, fosse uno studio di arte all’ultimo piano, un atelier sulla Senna tra le tele d’organza, che s’immagina rosa, che s’immagina bianche, e si gira di spalle e raccoglie i capelli, con un fermaglio di osso portato da casa.

Ora è nuda ai suoi occhi o almeno lo crede, e lo vede che freme, inquieto che trema, e scurisce i colori quel tanto, quel niente, per cogliere oltre, adatto alla pelle, come se il vestito non fosse che niente, e l’anima tutta una forma di carne. Lei lo vede che freme ed a volte s‘illude, che non sia solo Arte ma qualcosa che nega, e testardo lui fissa quel desiderio alla tela, che dentro uno specchio sparirebbe per sempre.

Alle volte s’illude altri giorni ci crede, che il vuoto che sente possa cambiare, il tempo, la vita, questo vento che soffia, e gioca indiscreto con la gonna che danza. La vede che s’alza e obbediente s’increspa, la vede che sale e la lascia salire, fino al bordo più scuro d’una calza mai messa, d’una seta di pelle che bianca contrasta. E prega quel vento di soffiare più forte, affidando al destino i prossimi passi, ma è un attimo appena che lui non ha colto, o il vento più cauto s’è arrestato di colpo.

Silenziosa s’immerge nei chiari scuri di verde, nell’intimo muto d’un ritaglio a quest’ora, d’ombre di pini, di nebbia che cala, tra le foglie rossastre in tinta perfetta, con la luce imbrunita che filtra e traspare. Alle volte s’illude, altri giorni ci crede, che su quella tela ci sia un’altra figura, che ostenta il seno, le gambe ed i fianchi, e decisa lo invita tra il quadro ed il sogno, e si infiamma in un bacio mentre schiude le labbra, e si lascia andare senza aspettare quel vento, perché sulla tela non serve un pretesto, di esser modella come lui il pittore, che ogni giorno da mesi la ritrae più bella, ritrae l’attesa che vuota rimane, ritrae il vuoto su quella panchina, quando il sole sparisce dietro le chiome e la filippina ha finito di stendere i panni.
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Photo  Giuseppe DiForti













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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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