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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Cinema Rialto




 


 

Quando avevo quindici anni abitavo in una villa, al numero ventotto sulla via Nomentana, con le palme in giardino e il cancello di ferro antico, una fontana all’ingresso con le rane e i pesci rossi ed un’edera rampicante che copriva la facciata, che copriva una targa con il nome di mio padre: “Avvocato civilista. Matrimoni & Divorzi”, che non erano divorzi, ma solo annullamenti, perché allora non c’era legge tranne che il Vaticano.

Sul muro un cuore grande e una scritta rosso fuoco: “Ti amo Nuvoletta, ti adoro Vita mia!” ed accanto due iniziali trafitte da una freccia, ma non capivo bene la ragione e che volesse dire, perché avevo quindici anni e correva l’anno sessantotto, ed io correvo in bicicletta fino in piazza a Porta Pia, dove c’era mia sorella che faceva il doposcuola, e qualche volta andavo oltre, fino a Via XX Settembre, dove c’era una bottega piena di libri impolverati, dove c’era un rigattiere che aggiustava biciclette.

Quando avevo quindici anni conobbi Valentina, la figlia del portiere dello stabile di fronte, lei aveva ventun’anni ed un seno grande grande, con una gamba un po’ più corta che la faceva zoppicare. Era esperta Valentina, di baci e di carezze, regalati sin da piccola dietro la stazione, la sera dopo cena illuminata dalla luna, col figlio del lattaio o suo cugino Anton Gavino, il primo maggiorenne e il secondo già sposato.
Spesso mi parlava del suo ragazzo militare, morto in un incidente sulla via Gallurese, mi parlava di sua madre rimasta in Sardegna, che era alta come un arbusto, bionda come il grano, niente a che vedere con sua figlia quasi nana, uno e cinquanta appena appena con i tacchi e con la zeppa.

Non era bella Valentina e nemmeno tanto magra, per capelli un rovo folto, riccio e spinoso, e per occhi due fessure dietro lenti scure spesse, che coprivano a stento un taglio sulla fronte, ricucito alla buona dal suo medico condotto, ricordo del paese, ricordo dell’infanzia. Ci vedevamo tutti i giorni dalle cinque alle sette, con i miei libri sotto il braccio di storia e di latino, con il suo dialetto stretto stretto, tra il sardo e il catalano, seduti su una panchina a Villa Paganini.

Ripetevo la lezione e lei paziente mi aiutava, finché un giorno all’imbrunire sentii il caldo di due labbra, l’esperienza di una lingua dentro la mia bocca, e compresi solo allora l’intensità di un bacio vero, il senso di quella scritta che correva lungo il muro: “Ti amo Nuvoletta, ti amo vita mia!” E compresi solo allora la differenza dei due sessi, il desiderio di quel seno, di una culla e di una tana, proprio quando in un abbraccio, lo accarezzai la prima volta, e lei per ringraziarmi sbottonò i miei pantaloni, e la mia voglia che ogni sera si consumava dentro il letto, finì sopra la sua mano al riparo di una siepe.

Quando avevo quindici anni ci mettemmo insieme, non sapevo cosa fosse e cosa avrei dovuto fare, oltre i pomeriggi in villa e le domeniche al Rialto, un cinema d’essai vicino via Nazionale. Lei fumava ed io toccavo quel seno grande grande, io fumavo e lei alzava la gonna fino ai fianchi, sopra quelle sedie, scomode di legno, nel buio di quel cinema comodo come un letto, la baciavo e mi baciava per tutto il pomeriggio, la toccavo e mi toccava ma senza fare altro, disturbati ogni tanto dalle luci della sala, che violente s’accendevano ad ogni termine di tempo.

Quando avevo quindici anni, l’estate venne presto, ricordo ancora il suo vestito, leggero di cotone, era Aprile oppure Maggio e in un sussurro mi propose, che era giunto ormai il momento, di fare all’amore, e facemmo dei progetti, la casa ed il lavoro, la villa in Sardegna da passarci poi l’estate. Ma al ritorno passeggiando, mano nella mano, incontrammo mio padre e la sera fu tempesta, perché ero ancora un ragazzino, figlio d’avvocato, e Valentina donna fatta, figlia di un portiere.

Andai a letto senza cena con il cuore in subbuglio, perché ero innamorato, perché ero tanto triste, ma mai e poi mai avrei deluso mio padre, ed allora presi carta e penna e scrissi due righe, d’addio e pentimento, di pianto e di passione, dicendole che per ora avrei pensato allo studio, senza fare cenno alle parole di mio padre, lei figlia di un portiere ed io di un avvocato. Passarono tre mesi, d’attesa e di dolore, passarono i pomeriggi dentro il mio giardino, sbirciando oltre il cancello di ferro nero antico, finché un giorno il postino mi consegnò un biglietto, mi chiedeva di vederci, mi diceva che era urgente, così che ci incontrammo un sabato mattina, di nascosto da mio padre vicino Corso Italia.

La vidi con l’aria stanca seduta su un muretto, portava un cappottino con il collo di pelliccia, sembrava molto grande più dei suoi ventun’anni, strinse la mia mano e scoppiò in un pianto fitto. Mi disse che era triste e che da una settimana, aveva iniziato a lavorare come commessa alla Standa, suo padre nel frattempo si era rotto una gamba, e soprattutto che era incinta ed io ero il padre…..

Fuggii via all’impazzata, non sapevo da chi e da cosa, ma andai di corsa a casa e dissi tutto a mia madre, per filo e per segno le raccontai tutto quanto, i baci a Villa Paganini, le sedie scomode di legno, le lezioni di latino, la gonna sopra i fianchi. Parlavo svelto e mi mangiavo le parole, lei s’assicurò che le avessi detto tutto, feci sì con la testa e allora mi sorrise, mi stropicciò i capelli, mi diede un buffetto, dicendomi che tanta strada avrei dovuto fare, che per diventare un padre vero ci voleva tanto altro, non certo quattro baci dati alla rinfusa, sopra una panchina o la domenica al Rialto.



*************



Quando avevo quindici anni, ora è solo un ricordo, perché sono passati tanti anni e siamo nel Novanta, fuori nel mio giardino la mimosa è in pieno fiore e sono le dodici e un quarto di un martedì di inizio marzo. Caterina è chiusa in stanza e domani avrà un esame, testarda come la madre, vuole prendere almeno trenta, sua madre è Valentina e sta tornando dal lavoro, è diventata nel frattempo Capo Reparto alla Standa.
Sul muro fuori il cancello si legge ancora “Nuvoletta”, ma il resto s’è scolorito compresi cuore e freccia, sulla targa accanto è stato aggiunto il mio nome, mi occupo di eredità, lasciti e testamenti, e soprattutto di divorzi quelli veri e non fasulli, perché il divorzio ora è legge e non solo in Vaticano, ma nonostante i miei quasi 40 anni ho il viso da ragazzino, e mi sono fatto crescere la barba per darmi l’aria da avvocato…


FINE



Ah dimenticavo…
Quando avevo quindici anni, mia madre si affezionò a Valentina, e Caterina sin da piccola scorazzava in giardino, poi le cose vennero da sole e mio padre se ne fece una ragione, Valentina ora è mia moglie e Caterina è nostra figlia.
E’ bionda e bella come la nonna ed è alta quasi quanto me, della madre ha preso poco tranne quel sorriso disarmante. Ora sento i suoi passi in corridoio, ha finito di studiare, mi vede sul divano e s’avvicina, sorride e mi abbraccia, vuole che l’aiuti nel pomeriggio, a ripassare la lezione, per spiegarle dei concetti, per darle delle dritte.
La sento è nervosa, cerco di calmarla, ma credo sia più che normale prima di un esame, perché in questa casa bella, tutto è normale, come il suo innato ottimismo e la sua inguaribile allegria, come la sua convinzione, unico caso al mondo, d’essere nata con un bacio nel buio di una sala, sulle sedie di legno duro al Cinema Rialto.

 

   






 





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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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